Dominio della mediocrazia, si avvicina lo scacco matto

Giuseppe Ursino

Giuseppe Ursino

Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Italia è distrutta. Negli anni ’50 e ’60 avviene il rilancio economico con un PIL in crescita in media del 5,8%. In quel periodo l’Italia è ancora un’economia agricola ed industriale e può tollerare senza grandi danni di essere rimasta un’area ad illegalità diffusa. I bassi salari e l’uscita dall’autarchia fascista hanno permesso agli italiani di competere col mondo e di esportare. Alla fine degli anni ’60, col benessere sociale e l’aumento dei salari, diminuisce il differenziale di costi dai concorrenti e perdiamo velocemente capacità competitiva. In quegli anni i Paesi più moderni si trasformano da economie di produzione ad economie di servizi, mentre gli italiani si incartano. Aumentano le tensioni sociali, non sanno reagire alla crisi petrolifera, sono fagocitati da corruzione, clientelismi, burocrazia inefficiente ed evasione fiscale e non hanno nessuna volontà e capacità di trasformarsi in una società di terziario e tecnologie avanzate, in quanto società moderne incardinate su trasparenza e meritocrazia. È l’inizio della fine. Negli anni ’70 e ’80 la brusca frenata dell’economia italiana viene “drogata” della crescita di spesa e di debito pubblico, si comincia così a vivere al di sopra delle proprie possibilità e si mantiene a deficit un PIL in crescita del 3%. Ed in questo modo, col doping, il ceto politico mantiene inalterato il suo consenso, iniziando a rubare il futuro alle nuove generazioni a cui poi rimarrà il cerino in mano (perché prima o poi i debiti bisognerà pagarli). I dazi doganali mantenuti dall’Unione Europea permettono all’Italia di continuare ad esportare in Europa nei settori a basso contenuto tecnologico, come i mobili o l’agroalimentare. Mentre, invece, si perde il treno nei settori del futuro, dove occorre un Sistema Paese per poter competere. Difatti nell’high-tech se non funzionano scuola, università e ricerca le chances di essere competitivi sono pari a zero. Dagli anni ’90 in poi, nella “società della conoscenza”, il Paese letteralmente si ferma imballato e comincia ad indietreggiare scivolando in ogni graduatoria internazionale agli ultimi posti. E così mentre la liberalizzazione del commercio internazionale distrugge quelle nicchie che hanno permesso all’Italia di sopravvivere nei decenni precedenti, il Paese si incarta ancor di più per una sfiducia diffusa, uno Stato con burocrazia e fiscalità sempre più oppressive, una manodopera tra le meno istruite, una corruzione dilagante, una scuola ed università in sfacelo. Addirittura si arriva a misurare un analfabetismo di ritorno che copre circa il 50% della popolazione e che impedisce di promuovere una classe dirigente nelle istituzioni pubbliche all’altezza delle difficoltà della sfida, ma al contrario vengono premiati i più spregiudicati, i senza scrupoli, trasformando l’Italia in una mediocrazia. Si è vicini allo scacco matto.

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